SALDI DI FINE SENSORE, EHM, STAGIONE

Avete presente quando entrate in un centro commerciale con i saldi in corso? Gente che corre a destra e a sinistra con lo sguardo determinato di chi vuole accaparrarsi l’occasione del giorno, disposta a spintonare, caricare, ringhiare contro i possibili acquirenti rivali? File interminabili ai camerini, durante le quali si mettono radici in negozio e si osservano le cose brutte e inutili in mano agli altri, con lo sconto sullo sconto dello sconto, unico motivo per cui forse saranno comprate? È in quel momento che si cerca di capire se tutto questo stia succedendo anche a noi, se la trasformazione in mostri da saldo sia in corso, sia già avvenuta, o ci terrorizzi abbastanza da farci abbandonare il circo degli sconti, tornando a godere della tranquillità, alla luce del sole.

Non mi ero accorta che la mia mutazione fosse arrivata ormai a un punto tale per cui era cominciata la fase di abbandono delle sembianze umane, per diventare io stessa capo d’abbigliamento in vendita.

Me ne sono resa conto nel momento in cui una placca antitaccheggio è comparsa sul mio braccio.

Non c’è stato bisogno di passare per la cassa per realizzare questo evento sconcertante, e neanche di far suonare l’allarme all’uscita dal negozio. La professionale e simpatica commessa a cui stavo chiedendo un consiglio sulla taglia della maglietta che volevo comprare, ha visto la mia piastrina antitaccheggio, e immediatamente riconoscendomi come abito in saldo, ha giustamente allungato il braccio per prendermi, ripiegarmi e mettermi al mio posto.

L’esperienza è stata stravagante: c’era gente che mi osservava, valutava se il mio tessuto fosse di qualità, se il colore fosse in tono con quello dei propri capelli, se l’orlo si potesse rifare.

A un certo punto, quando ho capito che qualcuno mi avrebbe voluto indossare, ho provato a spiegare che il mio non era un antitaccheggio, ma un sensore per la glicemia. Purtroppo questo non ha risolto la questione, perché quasi nessuno sapeva cosa fosse un sensore per la glicemia, e tutti si guardavano stralunati. La commessa infine si è un po’ infastidita, e ha iniziato a scuotere la testa borbottando che ora ci mancava solo la moda dei vestiti che parlano.

Nota dell’autrice: i fatti riportati sono di pura fantasia, com’è ovvio, ma partoriti dalla mia mente in seguito a un episodio reale, nel quale veramente una commessa, mentre mi parlava di magliette, ha inspiegabilmente allungato la mano verso il mio sensore, come se avesse riconosciuto per automatismo una placca antitaccheggio e stesse cercando intorno a essa un cartellino per verificare la taglia. Un fatto a cui non ho comunque trovato una chiara spiegazione, se non nella stanchezza della giovane, e nell’azione meccanica conseguente. Non sono stata appesa a una gruccia, bensì ho dovuto arginare l’imbarazzo e il disorientamento della ragazza, che aveva istantaneamente realizzato di aver toccato qualcosa attaccato al mio braccio. L’ho tranquillizzata e le ho spiegato che questi piccoli strambi episodi mi sono utili per fare divulgazione scientifica. E anche per scrivere storie.

created by Sara de Santis
picture by Sara de Santis

Qualcosa sul braccio.

foto aniene festival con sensore
ph. @AnieneFestival

Da un po’ di tempo ho qualcosa sul braccio. È un tappo di bottiglia; un bottone per i superpoteri; un accessorio di moda; un antizanzare; una cosa che è rimasta appiccicata; un dispositivo wifi per ascoltare musica.

Da un po’ di tempo ho qualcosa sul braccio. Mi chiedono quasi tutti cosa sia: bambini, adulti, anziani al mercato. Azzardano anche strambe ipotesi.

Da un po’ di tempo ho qualcosa sul braccio. Si vede nella foto. Quel tondino bianco, che forse potrebbe essere davvero un apparecchio elettronico per la musica, le chiamate, gli acquisti online, le performance sul palco.

Da un po’ di tempo ho qualcosa sul braccio. Proprio sempre. Non riesco più a farne a meno.

Da un po’ di tempo ho qualcosa sul braccio. I bambini lo toccano, provano a premerlo. Gli adulti lo indicano, lo sfiorano, tentano di guardarlo più da vicino allungando il collo e strizzando gli occhi.

Da un po’ di tempo ho qualcosa sul braccio. Non fa male.

Da un po’ di tempo ho qualcosa sul braccio. Ma da un po’ di tempo ho anche qualcosa sulla pancia. Solo che vedete la mia pancia meno facilmente, e non mi chiedete quasi mai niente.

Da un po’ di tempo ho qualcosa sul braccio. La cosa che ho sulla pancia è molto invidiosa di quella che ho sul braccio, perché lei che è piccola, tonda, bianca, misteriosa, intrigante, ora ha tutte le attenzioni su di sé.

Da un po’ di tempo ho qualcosa sul braccio. Mi si chiede cosa sia; io rispondo, e allora arrivano le scuse. Non scusarti: hai chiesto, ho risposto; abbiamo parlato. Magari ci siamo anche conosciuti grazie a questa cosa sul mio braccio. Magari ora sai già qualcosa di me, o sai qualcosa in più su di me.

Da un po’ di tempo ho qualcosa sul braccio. Le star della musica iniziano a chiedersi quale avanzata tecnologia io abbia a disposizione nel corso delle mie esibizioni.

Da un po’ di tempo ho qualcosa sul braccio. Lo dimentico spesso. Di solito me lo ricordano gli altri, con le loro domande, o me lo ricordo io quando quella cosa mi serve.

Da un po’ di tempo ho qualcosa sul braccio.

È un sensore per misurare la glicemia.

Ho il diabete di tipo 1, da quando ero bambina.

Il sensore migliora la mia vita perché posso controllare più spesso di prima la glicemia e vederne l’andamento.

Non sono dispiaciuta di averlo.

Non devi dispiacerti per me, ora che sai cosa è.

Devi essere felice per me.

Perché io sono più felice di prima, con quella cosa sul braccio.

Mi fa stare meglio.

Da un po’ di tempo ho qualcosa sul braccio. È un tappo di bottiglia; un bottone per i superpoteri; un accessorio di moda; un antizanzare; una cosa che è rimasta appiccicata; un dispositivo wifi per ascoltare musica.

Da un po’ di tempo ho qualcosa sul braccio. È quello che credi sia, finché non sai quello che è. È quello che mi diverto a inventare che sia, come in un gioco, tra me e me.*

 

*Nota dell’autrice: le supposizioni riferitemi relative a cosa sia questo dischetto sul braccio, mi hanno dato spesso un gran divertimento. Mi sono così trovata a cercare di immaginare io stessa funzioni fantasiose. Passeggiando sul lungomare, un giorno ho pensato che avrei provato a vedere cosa sarebbe successo a dire, al prossimo che mi avesse chiesto a riguardo, che si trattava di un salvagente che si gonfiava intorno al braccio in caso di emergenza in acqua. Oppure di un dispositivo per aspirare la sabbia dall’asciugamano. O di un regolatore di temperatura corporea. O di un modo per chiamare la nuvola di Fantozzi quando fa molto caldo, o di mandarla verso gli antipatici. In ogni caso, se a un certo punto i ricercatori volessero integrarvi anche la proprietà di allontanare le zanzare, ne sarei molto felice. In qualità di bottone di attivazione dei superpoteri invece, lo lascio a voi, che quelli i diabetici di tipo 1 li hanno già. 😉 

RICONOSCO PRIMA CHI SEI, E POI COSA HAI.

Qualche settimana fa ho incontrato una persona che non vedevo da alcuni mesi. Era venuta a un mio concerto, ed ero molto felice che fosse presente. Abbiamo parlato della serata, di come procedeva la nostra vita, e di altro ancora.

Più tardi, tornando a casa, ho improvvisamente pensato che avevo “dimenticato” che lei, come me, fosse diabetica, e che addirittura in fondo l’avessi conosciuta tempo prima proprio per questa ragione. “Dimenticare” forse non è il verbo più esatto; diciamo però che non ho associato immediatamente la sua persona alla sua condizione di salute. La persona è venuta prima del resto.

La stessa cosa mi è successa giorni dopo, con un altro ragazzo diabetico. Per me che lui abbia il diabete è una questione ulteriore. Quello che porto prima con me di lui, e che in lui riconosco, è la sua persona: chi è, cosa fa, che carattere ha.

Mi ha fatto molto riflettere il fatto che io stessa, pur essendo affetta da quella stessa patologia, fossi portata primariamente a escluderla dal mio primo livello di relazione con questi due amici.

Chissà quindi quante volte lo faranno gli altri con me, quante volte si “dimenticheranno” del mio diabete, quante volte penseranno a me solo come a Eleonora, la musicista che è loro amica, o collega, o figlia, o sorella, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, e poi infine sì, anche diabetica.

Ho pensato alla frequenza di imbarazzi che si provano in questo doversi esporre rispetto alla propria patologia, al timore di essere messi dagli altri in una categoria che vede sparire la persona dietro al suo problema.

Penso invece che siamo noi a volte, a nasconderci dietro al nostro problema, sparendovi appunto, non vedendo più chi siamo.

Siamo persone. Composte di tanti pregi, quanto di tante imperfezioni nel corpo e nel carattere; così da poterci formare umanamente. Come tutti. E se così ci vediamo noi, non vi è dubbio che così ci vedranno gli altri.

Riconosco prima chi sei, e poi cosa hai.

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SONO – 2° classificato concorso letterario FDG

Con questo racconto ho partecipato all’ottava edizione del  concorso letterario “Il diabete infantile e giovanile: le storie, i racconti”, indetto dalla Federazione Nazionale Diabete Giovanile (FDG), in collaborazione con la casa editrice Agapantos. Sono stati premiati i primi tre racconti, e così, essendosi il mio classificato secondo, ho avuto il piacere e l’onore di ricevere questo bel riconoscimento presso la Sala del Refettorio della Camera dei Deputati. Ringrazio molto la FDG, Agapantos, e coloro che mi sostengono ogni giorno. Non sono più soltanto le persone che mi circondano nel quotidiano, familiari e amici, ma anche voi, che seguite il blog sempre più numerosi e che mi scrivete pensieri bellissimi. Volevo quindi condividere questo racconto qui, perché condividere è bello. Condividere in punta di piedi, ma senza paure, rende la mia vita migliore. La rende migliore fidarmi, esprimermi, raccontare, ascoltare. 

Sala del Refettorio, Camera dei Deputati. Premiazione Concorso “Il diabete infantile e giovanile: le storie, i racconti”.

 

 

SONO

di Eleonora Betti

 

 

Respiro, bevo, mangio, guardo. Amo. Viaggio, studio, lavoro.

Sento. Suono.

Sono.

 

Quel suono, lo sento:

tac, tac, tac,

tac, tac, tac,

tac,

tac,

tac,

tac,

tac.

 

 

La mia pompa di insulina, dopo avere erogato la dose richiesta, riprende a consegnare il suo carico di giornata, lenta, incessante, quieta quando non è in allarme.

 

Respiro.

 

A volte mi piace guardarlo, sdraiata sul letto, si muove con me quando sollevo e abbasso l’addome; riposa vicino all’ombelico, di solito non visto, perché dai vestiti delicatamente si trova coperto. È un tubicino che porta del liquido dentro, trasparente; gran vantaggio certo, non doverlo quindi abbinare per colore al mio aspetto. Sta bene con tutti, l’insulina che inietta, con tutti quelli che ne hanno ormai urgenza.

 

Deve esserci totale silenzio, per riuscire a sentire quel suono:

tac, tac, tac, tac, tac, tac, tac, tac, tac, tac, tac.

 

Potrei usarlo per creare un balletto, o improvvisare un motivo da fischiettare nel vento. Tutto a quel ritmo, né veloce né lento, come se la macchina che porto appresso, avesse un suo cuore incurante del resto. Lei non è suscettibile di grandi emozioni, ma devo ricordarle che io non sono programmata a priori. Il resto del corpo funziona normalmente, nonostante il mio pancreas abbia smesso, da tempo, di dare i suoi frutti migliori.

 

Chissà oggi che succederà di imprevisto. Forse correrò per prendere un treno, o arriverò sulla cima di un colle per vedere come cambiano le cose se sposto il limite dell’orizzonte; potrei decidere di fermarmi sotto casa con te a parlare, e non accorgermi che si è fatto tardi per consumare un pasto in orario salutare; se magari fossi molto ispirata, potrei scrivere anche una canzone, e allungarmi in tale lavoro fino a tardi, stremata. Potrei sentirmi un po’ agitata, in ansia per qualcosa da fare, per un pensiero inquieto che s’insinua nella mente, portandomi a stare male. Potrei innamorarmi, in questa giornata, incontrare uno sguardo e sentirmi leggera e piena e coraggiosa e delicata. Allora il mio cuore batterebbe forte, avrei energia per correre ancora più veloce, senza fiato raggiungere la cima di quel colle. Vedrei l’orizzonte più lontano, capirei che tutto cambia, secondo come sembra porsi nel mondo, e nel giudizio umano.

 

Ma ho corso troppo ora, mi sono innamorata troppo oggi, ho visto troppo, troppo lontano all’orizzonte, parlato con te, felice sì, ma troppo a lungo, e poi suonato finché è scesa la notte, e anche quella ahimè, era troppo inoltrata. Stavo così bene a un certo punto, da dimenticare che se il mio passo accelera molto, se sono allegra, o indaffarata, e consumo energia a profusione, devo dirlo alla piccola macchina che tengo in tasca, perché il suo cuore sempre regolare possa rallentare e farmi meglio respirare; o se per caso mangiassi un biscotto, dovrei dirle che mi serve il suo aiuto, se no poi lo zucchero mi affannerebbe, sarebbe un problema lo stesso, all’opposto. Non stupirti: tutti gli eccessi di solito portano a stati di sconforto.

Se scordo di parlarle sto male, e con lei non mi posso neanche arrabbiare. Perché non sa che il mio cuore è nel corpo, e il corpo nel mondo, e che il mondo si muove, e muove in mille modi il mio giorno.

Ho pensato di presentarle un amico con cui dialogare, di affiancarle un collega che legge lo zucchero che scende, e che sale. Lo porto sulla pelle, così se ogni tanto mi innamoro troppo delle cose che ho intorno, e distratta non parlo subito a quell’apparecchio col tubicino, che porto, l’altro lo chiama, riferendogli quel che di me ha provato a capire, ad ascoltare, e lo traduce al suo meglio, ne fa un messaggio che arrivi chiaro e tondo.

È un sensore, e non posso con lui normalmente comunicare: delle mie emozioni non capisce molto; dei muscoli in azione non sente lo sforzo. Per questo non gli posso raccontare quegli episodi di una giornata intensamente normale, però sono contenta, perché qualcosa gli dice quando nel corpo lo zucchero è tanto, o è poco, pochissimo, da farmi quasi svenire; questo mi basta, per ora, come messaggio da riferire.

Che le macchine si sa, capiscono meglio il risultato concreto; è un algoritmo, un numero, che ha per loro un senso. Io invece mi vedo più complicata, i numeri mi compongono forse, ma in una maniera che mi pare troppo elaborata. E se anche la scienza analizza l’oggetto, e del corpo vede ogni pezzetto, a volte perde lo sguardo sul tutto. Sopra le parti ci sono io, e io sono, e qui resto, anche in un corpo con qualche difetto.

 

Sono io che respiro, bevo, mangio, guardo. Sono io che amo. E viaggio, studio, lavoro.

Sento. Suono.

Sono.

 

CON LE PINNE, IL DIABETE E GLI OCCHIALI

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Ecco i miei dieci punti di bilancio di fine estate, quando ormai inizio a vedere come in una vecchia cartolina le settimane passate con le pinne, il diabete e gli occhiali:

 

1 – Sono stata più brava: nel rispettare la quantità di misurazioni della glicemia; nel contare i carboidrati; nel non stressarmi oltre il limite che il mio corpo può sostenere senza subire grosse ripercussioni. Sono stata più brava nel prendermi cura di me.

 

2 – Ho preso di nuovo atto di come la vita vacanziera con i suoi ritmi regolari e umani sia estremamente benefica per il controllo del diabete, e so che a breve ne sentirò molto la mancanza.

 

3 – Cerotti che si staccano: mi riferisco al set di infusione di insulina per il microinfusore. È un imprevisto che può capitare per via del caldo, dei bagni frequenti, della maggiore sudorazione. Ho avuto questo problema più che negli anni precedenti, ed è sinceramente fastidioso per il disagio che può creare sul momento, e per l’aumento di materiale usato, che genera ansia rispetto al consumo della fornitura annuale. Ho trovato in farmacia una pellicola adesiva trasparente che si può tagliare secondo la misura desiderata. Sembra funzionare, quindi meglio non tergiversare; altrimenti può bastare il fatto di non avere sbadatamente con sé un set di ricambio quando si è fuori casa, per trovarsi nei guai e dovere interrompere una bella giornata di svago o un impegno di lavoro. Lo consiglio anche a voi, se vi siete trovati ad avere il mio stesso problema.

 

4 – Ho guardato dritto negli occhi quei pochi che mi hanno fissata in spiaggia. Tra l’altro chiedendomi se poi davvero stessero guardando il mio microinfusore, o se stessero invece pensando intensamente alla soluzione delle parole crociate che avevano in mano. Nel dubbio ho ricambiato lo sguardo, con vaga aria di sfida da film alla Clint Eastwood, che mi ha dato un certo brivido hollywoodiano. Ma era una sfida più con me stessa, che con chi avevo davanti. Volevo in quel modo provarmi che non c’è nulla di cui debba vergognarmi o da cui debba nascondermi; nulla per cui rifugiarmi voltandomi dall’altra parte. Tuttavia capisco sempre di più che sono a mio agio con chi guarda il micro e mi chiede cosa sia, e a disagio con chi fissa e basta a qualche metro di distanza, perché nel secondo caso non si crea possibilità di comunicazione, e secondo me è la comunicazione a creare unione e comprensione.

 

5 – La maggior parte delle persone in spiaggia è decisamente occupata a farsi gli affari propri e direi che non ne vuole sapere di quelli degli altri, quindi la spiaggia è, paradossalmente, da una parte il luogo in cui si è più visibili fisicamente, e dall’altra il luogo in cui si è più ignorati. In effetti se una persona ha pochi giorni di pausa dal lavoro, è al mare con amici, fidanzati/e, famiglia, ha ancora lo stress della città addosso e fatica a disintossicarsi dai social network, secondo voi può avere così tanta voglia e tempo di farsi domande sul vostro microinfusore e/o sul vostro cerotto?

 

6 – Con il micro in costume mi sento un po’ come Lara Croft (disarmata) in Tomb Raider, che aveva appeso alla sua cintura accessori di vario genere. Anche questo mi dà un brivido hollywoodiano, devo dire.

 

7 – Il rapporto con il micro e con il mio corpo è in costante evoluzione, e mi stupisco di quanto sia cambiato, positivamente, soprattutto negli ultimi due anni.

 

8 – Con il micro non cambia nulla rispetto a: sentirsi troppo grassi o troppo magri; sentirsi troppo bassi; confrontare il proprio punto vita con quello delle imperterrite frequentatrici di palestre che hanno sudato tutto l’anno per mostrare ora i risultati perfetti del loro lavoro di zumba e pilates; chiedersi se il colore dello smalto è quello giusto per l’anno corrente; chiedersi se sia più elegante un’abbronzatura leggera o uno sfacciato color “quest’anno il sole l’ho preso anch’io”; chiedersi a quale tipo di depilazione/epilazione sia meglio affidarsi; chiedersi perché ancora le donne non si siano evolute alla totale assenza di peli, visto che passano tutta la loro vita a liberarsene costantemente; chiedersi se quella dell’ombrellone accanto avrà fatto lo scrub una volta al mese per avere una pelle così bella; pentirsi di non aver portato più frutta in spiaggia; pentirsi di non averla sistemata meglio nel trovarla pigiata; pentirsi di non aver portato le racchette in spiaggia; pentirsi di non aver portato il pallone in spiaggia; pentirsi di non aver portato la maschera con cui non avresti visto comunque nulla di interessante sott’acqua, dato che non sei in un paradiso dei sub, ma che ti avrebbe concesso la sensazione di esplorare qualcosa; pentirsi di aver ceduto a questa odiosa storia del tempo che passa e ci si ritrova adulti, per cui un giorno in spiaggia non hai più nulla con te se non le parole crociate, e quasi quasi ti va bene così, questo stare distesa su un asciugamano come se fosse la culla dell’universo; salutare amaramente il mare a fine estate, scuotendo interiormente un fazzoletto come si faceva con le navi e con i treni in partenza e nei film d’altri tempi, lacrima inclusa.

Stranamente infatti, con il micro non cambia nulla rispetto al fatto di stare bene al mare.

 

9 – La conclusione di cui sopra non avrei mai pensato di realizzarla quando ho messo il micro, e mi nascondevo in spiagge deserte maturando malumori tremendi per le foto in costume.

 

10 – Le zanzare sono state la cosa peggiore dell’estate. Non il diabete, non il microinfusore, ma le zanzare.

 

10 bis – Avevo la tosse al mare come fosse stato dicembre. Questa interpretazione da protagonista della Bohème mi sembrava stridere tanto con il contesto in cui mi trovavo, da farmi sentire a disagio con le persone che avevo intorno. È divertente per quante cose diverse possiamo riuscire a sentirci a disagio.

Il disagio è uno stato mentale così evoluto che se ti addormenti sotto l’ombrellone, se fai il bagno soffrendo per il gelo dell’acqua ad altezza stomaco, se fai i castelli di sabbia o le parole crociate, se perdi tutte le palle che arrivano improvvisandoti giocatore di beach volley, o se osservi esterrefatto una volpe quando esci dall’acqua nel tentativo di rubare il panino dalla tua borsa, sparisce. Poi torna eh, tranquilli. Torna subito quando smetti di occuparti di qualcosa di meglio.

 

Sullo stesso argomento su “diabetedartista” trovi anche: Il microinfusore che fa innamorare Iron Man; Sotto questo sole: al mare col micro (e i suoi “risvoltini”)

 

IL DIABETE IN DUE

Ma il diabete in due è uno per due, o uno diviso due? Oppure resta sempre uguale a uno?

Un giorno, all’improvviso, ti trovi a dover spiegare come funziona la tua giornata, la tua vita con il diabete, a qualcuno.

Così ti fai da capo, provi una via semplice, scopri che dall’altra parte ci sono già informazioni trovate su internet, che le spiegazioni essenziali non bastano, che servono i dettagli; ti scontri anche con la novità di una persona che ora vuole aiutarti.

Aiutarti? Ma è follia. No via, ragionevolmente non è pazzia, pensi tu, è pura ingenuità. Quella di chi non sa niente, perché dai, non sa niente. Come potrebbe conoscere, da non diabetico e da non medico, tutto quello che sai tu dopo diciotto anni di diabete vissuto sulla tua pelle.

Tuttavia causare un risveglio brusco da questa affettuosa ingenuità potrebbe essere un passaggio troppo duro, rifletti; meglio lasciare spazio ai tempi naturali della scoperta dei limiti effettivi delle competenze scarse e dell’eroismo del voler soccorrere la tua glicemia.

Realizzi anche che l’ultima volta in cui qualcuno ha provato a gestire in modo collaborativo-attivo la tua patologia, avevi 11 anni e si trattava di tua mamma. Ma metti da parte l’orgoglio, le abitudini, il senso di protezione e di indipendenza, e decidi di osservare la cosa quasi fosse un esperimento di un ricercatore della facoltà di sociologia.

Scopri che condividere il diabete, in questo senso, vuol dire dover spiegare sempre, e che spiegare è bello perché porta comunicazione, ma è faticoso perché a volte quando la glicemia va male non vuoi parlarne, vuoi provare a pensare ad altro; vuol dire poi tentare di non illuderti dell’illusione altrui, perché tenere basse le tue aspettative è diventato un meccanismo di salvaguardia dalla frustrazione per un probabile fallimentare impegno. Una delle ultime volte in cui hai caricato di aspettative positive l’attesa del risultato del prelievo per la verifica del livello di emoglobina glicata nel sangue, sei finita a piangere dietro agli occhiali da sole tenendo la busta in mano mentre lasciavi l’ospedale. Che mica è niente di inamovibilmente grave; si può rimediare, una glicata non troppo buona. È grave per te, perché quando pensi di essere ormai abituata alle delusioni, ti scopri invece sempre più sensibile perché sei stanca di averne.

Condividere il diabete con qualcuno vuol dire anche sentire il peso di farlo, perché se lo stress è gestibile per te, lo sarà per un’altra persona, che per di più quello stress lo trova come una conseguenza dello starti accanto, e non come una patologia da gestire sulla sua pelle?

Condividere il diabete con qualcuno vuol dire scusarsi. Scusarsi perché non si è bravi abbastanza e allora la glicemia non va bene e allora tu stai male e forse rovini il tempo della condivisione; scusarsi perché non si è bravi abbastanza e così i tentativi di supporto esterno a volte non portano i frutti sperati; scusarsi perché non si è bravi abbastanza e ora le delusioni non saranno più solo proprie; scusarsi perché provi a essere brava abbastanza, ma abbastanza non è comunque sufficiente per stare bene sempre; scusarsi perché che tu sia brava abbastanza o non abbastanza, il malumore per le glicemie a volte è forte, abbastanza; scusarsi perché provi a pensare che non c’è niente di cui scusarsi perché non è colpa di nessuno, ma così facendo forse non ti preoccupi abbastanza delle conseguenze della tua patologia su chi hai accanto. Scusarsi un bel po’ di volte.

Condividere il diabete con qualcuno vuole anche dire però che c’è chi ti ricorda che in effetti non sei brava abbastanza in alcune occasioni, ma che è normale, perché è molto difficile; vuol dire essere incoraggiati; vuol dire sentirsi ricordare che non ci si deve scusare per l’essere affetti da una malattia.

Vuol dire confermarsi che avere una patologia ci può scusare per alcuni momenti di stress, ma non può scusarci se non siamo in grado di osservarli.

Vuol dire scoprire che un po’ di ingenuità fa bene; verificare che si può tentare qualcosa in più; realizzare la parte buona delle proprie consuetudini, e valutare i loro limiti; vuol dire imparare.

Vuol dire oscillare tra la felicità di vedere che qualcuno si preoccupa per noi e il dispiacersi di essere causa di preoccupazione.

L’indipendenza è una conquista preziosa, ma è più forte se sa come adoperarsi per la condivisione.

E non l’ho ancora capito, se il diabete in due sia uno per due, o uno diviso due, oppure se resti sempre uguale a uno, ma in fondo ho sempre preferito scrivere, che far di conto.

 

peanuts amore brahms

CENTOCINQUANTASETTEMILASETTECENTO ORE DI VITA

Qualche giorno fa il mio diabete ha compiuto diciotto anni.

Ho pensato un poco a questo strano compleanno, nelle settimane precedenti l’anniversario, con una sensazone di difficoltà nel realizzare quel numero, nel dargli una concretezza.

Ho ripensato a quando a undici anni mi sono trovata improvvisamente in una corsia di ospedale, a cercare di capire cosa stesse avvenendo al mio corpo, alla mia vita, e perché tutti intorno a me vivessero quella situazione con tale livello di disperazione. Da parte mia avevo la forse strana idea che la cosa importante fosse che per quell’imprevisto fisico esistesse una terapia utile a proseguire le mie varie attività quotidiane “come prima”; che dopo qualche giorno avrei finalmente potuto tornare a casa a mangiare cose buone; che sarebbe finita quella tortura della sete e della pipì, sintomi dell’insorgenza del diabete; infine l’ansia principale era relativa all’aver saltato per colpa del ricovero ospedaliero il compito di francese, e perso diverse lezioni di storia e di letteratura.

Era ancora il periodo di Titanic, con il suo protagonista maschile adorato dalle ragazzine. Qualche mia compagna di classe venne a trovarmi, e ricordo sorridendo di aver ricevuto un “Cioè”, rivista di gossip per adolescenti in voga in quegli anni, piena di queste foto di un Di Caprio giovanissimo, che mi pareva totalmente privo di fascino. Sarà stato forse perché ero cresciuta guardando Zorro.

Comunque sia credo che i miei pensieri fossero sereni per due ragioni: avevo ingenuamente mantenuto un saldo ancoraggio a cose che mi parevano più decisive di questo diabete tutto da scoprire, come la scuola; e più importante, non mi rendevo conto di quanto sia lunga la vita e di quanti momenti nel tempo avrei dovuto condividere con la mia patologia. Non avevo chiaro che essa avrebbe sempre avuto a che fare con la mia vita in uno strambo non stop bipolare di abbondanza e mancanza di zuccheri.

Dicevano i dottori che in pochi anni si sarebbe trovata una cura. Ora a distanza di tempo io credo che il passaggio di ognuno di noi sulla Terra sia così breve in fondo, rispetto ai tempi della scienza, da non dovermi amareggiare anche nel caso in cui non dovessi essere tra coloro che vedranno una soluzione definitiva al diabete.

Quello che mi spaventa dei diciotto anni trascorsi quindi non è tanto questo, quanto il pensare che ne sono passati già così tanti da avere accumulato un’enormità di fatti piccoli e grandi da ricordare riguardo al diabete, di buchi sulle dita, di iniezioni prima e set di infusione poi, facendo il diabete parte ventiquattro ore su ventiquattro della mia vita. Quindi sono circa centocinquantasettemilasettecento ore di diabete, ma anche di vita. Ecco mi piace pensare che grazie alla terapia insulinica sono centocinquantasettemilasettecento ore di vita, che altrimenti non avrei avuto.

Che poi saranno tante, ma come del resto per quando diventi maggiorenne, non scatta nessun automatico diploma di saggezza e totale competenza, dopo diciotto anni di diabete.

Sono ancora imbranata e sbaglio.

Sbaglio spesso.

Una perfetta diciottenne, o forse un perfetto essere umano.

 

peanuts futuro

MICRO DOMANDE: se a chiedere sono i bambini.

Ieri una bambina ha osservato il mio microinfusore. Era nella tasca dei miei jeans, ne spuntava fuori un pezzetto. Mi ha chiesto cosa fosse.

Non era la prima volta che capitava, anzi con i bambini succede più spesso che con gli adulti. I grandi forse a volte hanno una forma di pudore, nel fare domande semplici come questa, o non notano i dettagli. I bambini sono solo ingenuamente curiosi, e chiedono. In ogni occasione come quella ho dato una risposta un poco diversa, senza mentire, cercando solo di rispondere in modo spontaneo, semplice, chiaro, rilassato. Provando a rendere immediato e leggero qualcosa di complesso. Ho dosato sempre la quantità di dettagli e le informazioni scientifiche in base all’età del/della bambino/a che avevo davanti.

L’episodio di ieri è stato con una bimba quattro anni. Per risponderle ho scelto un modo nuovo: ho tirato fuori interamente il microinfusore dalla tasca e ho smontato per un attimo il serbatoio che contiene l’insulina che poi arriva al mio corpo, per farglielo vedere. Le ho detto: «Ecco, guarda, qui ho questo liquido. Il tuo corpo lo produce da solo, il mio invece no quindi lo tengo qui, perché mi serve per prendere bene le energie dalle cose che mangio.» La bambina mi ha guardato perplessa. Non avevo mai sperimentato cosa poteva succedere a far vedere il serbatoio. Non volevo chiudere quella parentesi con il dubbio di averla in qualche modo disorientata, quindi ho pensato di aggiungere questo: «Se a una persona manca un po’ la vista cosa fa, porta gli occhiali, giusto?» Lei ha annuito. «Bene» ho proseguito «per me questo oggetto è come un paio di occhiali per chi non vede bene: quel liquido è molto importante per il corpo, e dato che mi manca, lo prendo così, come avrei fatto portando gli occhiali se mi fosse mancata un po’ la vista. Sono riuscita a spiegarti meglio ora?» – «Sì», ha detto lei annuendo, e con un sorriso. «Molto bene, ne sono felice. Dai suoniamo ora, che ne dici?» – «Sì!», annuendo, e con un sorriso.

micro e occhiali

IPO DA INCUBO: ALTRO CHE FREUD

peanuts sogni

Ho paura di addormentarmi, perché ho la glicemia in bilico. Ho avuto diverse ipo in questi giorni, sicuramente perché sono tornata a consumare più energie dopo le feste natalizie, e pur tentando di prevenire e aggiustare le dosi di insulina, non ho ancora azzeccato il giusto equilibrio.

Ho paura delle ipoglicemie notturne, non solo per i pericoli dati da eventuali non risvegli: ho paura degli incubi.

Se quando siamo desti noi diabetici avvertiamo un’ipoglicemia per una serie di elementi quali tremore, sudore freddo, irritabilità, fame, palpitazioni, senso di confusione, quando dormiamo tutto questo si rende evidente solo se ci svegliamo. Finché siamo nel mondo dei sogni, siamo nel mondo degli incubi.

Il nostro corpo, in una modalità che ha per me un fascino incredibile, traduce lo stato di malessere con l’invenzione di storie terrificanti, che attraversano la nostra mente dormendo. È a suo modo un segnale di allarme.

L’alternativa è che possa inserire elementi raffinati, come la ricerca di cibo, nel sogno.

Questa seconda possibilità è più simpatica, un po’ come se vi scappasse la pipì, e il bisogno fisico entrasse a far parte della narrazione onirica, proiettandovi seduti su un autobus in preda a contorcimenti di vario genere, dicendo ai presenti che avete dimenticato a casa la vostra tazza da viaggio.

La prima opzione invece mi spaventa molto, perché il genere di incubi che questo stato di malessere produce sono davvero orribili.

Nella peggiore delle ipotesi succede che ti ritrovi come sono io ora, alle 3 di notte, a sentire quel languorino allo stomaco e quella strana mancanza di stanchezza, che non ti fanno addormentare. A volte mi capita di misurare la glicemia, e trovarla ancora giusta; ma so già che c’è qualcosa che non va bene, pur non potendo dichiarare certezze. Altre volte si può correggere con zucchero, e risolvere, a meno che il problema del rapporto insulinico rispetto al reale fabbisogno non sia più grande, e si ripercuota anche nelle ore a seguire, mantenendo il livello glicemico persistentemente nella sua tendenza al basso. In quel caso un po’ di zucchero potrebbe rivelarsi essere solo un tampone, e non una soluzione.

Lo so, è complicato. Penso che un individuo sano fatichi a seguire la descrizione che sto facendo. Chi si innamora di una persona con diabete di tipo 1, impara queste cose standole accanto, compresa la fase notturna. Può essere prezioso avere qualcuno vicino, in questo senso, e anche se un diabetico vive in modo tendenzialmente indipendente e solitario i vari accadimenti della sua giornata, fa piacere a tutti sentire un sostegno, una coccola; sentirsi accolti.

Non ricordo che cosa ho sognato l’altro giorno. Mi sono addormentata a notte fonda, dopo alcune correzioni con zucchero. Poi tanti incubi che mi hanno terrorizzata. Purtroppo non mi sono svegliata, restando in questo stato malandato per qualche ora, fino alle 7.30, quando con gli occhi sbarrati, la glicemia bassa, e lo stress emotivo accumulato nel sogno, mi sono alzata.

Ora ho impostato una basale temporanea: avendo il microinfusore, posso intervenire in tempo reale sull’erogazione dell’insulina. “Basale” è quel termine che si usa per indicare l’insulina rilasciata nelle 24 ore in modo costante, secondo una programmazione pre impostata, concordata con il medico, suscettibile di frequenti revisioni. Un diabetico di tipo 1 non può limitarsi ad assumere insulina solo in corrispondenza dei pasti, poiché necessita di una “base” insulinica, appunto, anche nel resto della giornata. Adesso ho ridotto quella dose per un tempo limitato.

Se qualche diabetico dovesse leggere questo articolo, spero mi perdoni: so bene che alcuni dettagli forse possono mancare, o che ognuno ha le sue esperienze, e vi ricordo che questo blog non è quello di un medico, ma di una diabetica, che affronta le difficoltà magari commettendo anche errori di valutazione ogni tanto, continuando a imparare ogni giorno. So anche che esistono i sensori di rilevamento glicemico, per chi li usa (io ho iniziato a sperimentarli qualche volta di recente), che possono avvertire del calo glicemico e/o bloccare in autonomia l’erogazione di insulina del microinfusore. Non volevo però ora introdurre troppi argomenti tutti insieme.

Nel tempo in cui sto scrivendo questo articolo, mi sembra di iniziare a sentirmi meglio, e non più in quello strano bilico. Ho sonno ora, all’improvviso.

Forse non farò incubi stanotte, oppure spero di sognare di mangiare lo zucchero filato.

Se dovessero essere incubi, mi auguro qualche innocuo mostriciattolo, e di svegliarmi subito trovando sollievo in un paio di caramelle.

Il corpo umano riesce a esprimere la sua raffinatezza anche nelle sue più grandi difficoltà, e forse i diabetici sono dei buoni rappresentanti di una certa concretezza nell’analisi dei brutti sogni: non vogliono dire niente, hai solo un’ipoglicemia. Altro che Freud.

DOLCE E AMARO, COME IL CARBONE.

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Sono passate le feste, quasi tutte. Aspettiamo solo di salutare anche la Befana.

La Befana tradizionalmente porta carbone. Quello dolce, ai buoni. Io lo voglio amaro, come prendo sempre il caffè, tranne quando ho un’ipoglicemia, o so di dover fare due passi.

Amaro, amaro, voglio un anno amaro. Basta con questa dolcezza. Ogni diabetico si augura di avere un anno amarissimo, che la dolcezza è iperglicemica.

Crostate amare, marmellate amare, fichi amari, biscotti amari; amaro anche il salato, che è dolce, il suo carboidrato.

Amaro amaro amaro amaro, anche l’amore amaro, l’affetto amaro.

Amaro tutto, anche la cioccolata, le mani appiccicose di una calda giornata.

Amaro il ricevere aiuto, amara la tenerezza, amara la bellezza.

Amaro il cielo, amaro il focolare, amara una passeggiata a piedi nudi nel mare.

Amara voglio essere amara, che la vita sembra non essere mai amara come dovrebbe: ci lascia il sangue dolce, anche quando è molto amara.

Perché il diabete è amaro, ma non è amaro abbastanza; porta con sé il gran difetto di essere amaro attraverso la sua incontrollabile dolcezza. Il difetto anche di ignorare la sua amarezza, o altra amarezza. Procede amaramente con dolcezza, imperterrito.

È talmente dolce, l’amaro diabete, che anche quando siamo in ipoglicemia non siamo mai amari a sufficienza, noi diabetici.

Diventiamo scontrosi, irascibili, affannati, confusi, indifesi, tremanti. Ma non siamo amari a dovere. Anche nel calo di zuccheri sappiamo essere già insito il rischio del famoso “rimbalzo” verso l’iperglicemia.

Neanche lì puoi godere a cuor leggero di un sapore dolce, che devi calcolarlo bene, lo zucchero che assumi, anche in ipoglicemia. Perché di fatto, sei comunque un soggetto programmato per produrre dolcezza. Se ci fossero limitazioni di circolazione per i veicoli umani di zucchero, noi saremmo sempre tra quelli inseriti nel blocco del traffico.

Amara amara amara, voglio essere amara. Amara che non basti una colata di miele a mitigarmi, amara come una medicina. Amara come il veleno, si diceva; amara come il carbone.

Amara.

Per essere amara dovrei non avere più nessuna riserva di energia da poter consumare nel corpo. Allora sarei amarissima, ma morirei.

Morirei però anche di troppa dolcezza.

Ma allora che devo fare io, vorrei solo dover gestire una dolcezza più semplice! Fatemi occupare di quella emotiva e finiamola lì, no?

Ed ecco fatto, l’errore del diabetico, l’ho appena commesso: pensare che ci sia qualcosa di più semplice. Non esiste qualcosa di più semplice, esiste semmai qualcosa in meno di cui doversi occupare, e certo non siamo ipocriti nel dire che a tutti noi farebbe piacere toglierci questo pensiero.

Resta il fatto che il diabete di tipo 1 non è un mio amico, non è un nemico, non è un agente esterno. È una condizione del mio corpo, e non potendo prescindere da nessuna parte di me, né fare la guerra a me stessa, mi auguro per il nuovo anno una dolcezza che non faccia male; mi auguro comprensione, mi auguro del bene. Ma no, non di essere amara, che di troppa amarezza ugualmente si muore, dimenticando prima chi siamo.